...ovvero equilibrio tra ordine e caos
La Giustizia rappresenta la perfezione dell'agire umano. Se portata all'estremo, però, la perfezione può diventare asfittica: la morte stessa, in fondo, non è che un'estrema forma di perfezione. Ma proprio La Morte (o meglio, l'Arcano Senza Nome) costituisce un antidoto all'intransigenza de La Giustizia: quest'ultima, infatti, impara dall'Arcano XIII che il vero equilibrio consiste nell'accettare il cambiamento e nel non negarsi ciò che si merita, anche se questo può provocare una vera e propria rivoluzione. In altre parole, accettare di trasformare noi stessi ci rende vivi, mentre rifiutare l'evoluzione può condurre alla paralisi. L'Arcano XIII, d'altra parte, trova ne La Giustizia un senso alla propria opera di demolizione: così come l'ordine si nutre del caos, il caos ha bisogno di ordine per poter dare vita ad una nuova forma. Il repulisti dell'Arcano Senza Nome, insomma, ha senso solo se il suo obiettivo ultimo è quello di fondare un nuovo equilibrio, possibilmente migliore di quello precedente.
Il rapporto di coppia Giustizia-Arcano Senza Nome è molto ben espresso dalla bellissima storia d'amore raccontata nella "Turandot" di Giacomo Puccini. L'azione si svolge a Pechino, "al tempo delle favole". Un mandarino annuncia che Turandot, la bellissima e inaccessibile figlia dell'Imperatore, sposerà quel pretendente di sangue reale che riesca a risolvere tre indovinelli molto difficili da lei stessa proposti; colui che, cimentandosi nell'impresa, abbia la sventura di fallire, dovrà però essere decapitato. Il principe di Persia, ultimo di tanti sfortunati pretendenti, ha fallito la prova e sarà giustiziato al sorgere della Luna. Tra la folla desiderosa di assistere all'esecuzione, sono presenti il vecchio Timur e la sua fedele schiava Liù. Nella confusione, Timur cade a terra e viene soccorso dal giovane Calaf: costui riconosce nel vegliardo il proprio padre, re tartaro spodestato e rimasto cieco nel corso della battaglia che lo ha privato del trono. I due si abbracciano commossi e Calaf prega il padre e la schiava Liù di non pronunciare mai il suo nome: teme infatti i regnanti cinesi, i quali hanno usurpato il trono di Timur. Ai primi chiarori lunari, appare il corteo che accompagna il condannato a morte: la folla, commossa per la giovane età della vittima, ne invoca la grazia, ma Turandot, glaciale come sempre, impone il silenzio e con un gesto ordina al boia di giustiziare il principe. Calaf, che prima l'aveva maledetta per la sua crudeltà, è ora impressionato dalla bellezza della principessa, e decide di tentare la risoluzione dei tre indovinelli. In preda a una sorta di delirio amoroso, invoca il nome di Turandot, la quale compare sulla loggia del palazzo imperiale accettando la sfida.
Sul piazzale della reggia, tutto è pronto per il rito dei tre enigmi. Entra in scena Turandot, che spiega il motivo del suo comportamento: molti anni prima, il suo regno era caduto nelle mani dei tartari e, in seguito a ciò, una sua antenata era finita nelle mani di uno straniero. In ricordo della sua morte, Turandot aveva giurato che non avrebbe mai permesso a un uomo di possederla e aveva dunque inventato il rito dei tre indovinelli, convinta che nessuno li avrebbe mai risolti. Inaspettatamente, Calaf riesce però a superare la prova e la principessa, disperata, si getta ai piedi del padre, supplicandolo di non consegnarla allo straniero. Per l'Imperatore, tuttavia, la parola data è sacra, e a Turandot non resta altro da fare che ammonire Calaf: se la sposerà, dovrà accontentarsi di una moglie riluttante e piena d'odio. Il principe la scioglie allora dal giuramento, proponendole a sua volta una sfida: se Turandot, prima dell'alba, riuscirà a scoprire il suo nome, egli le regalerà la sua vita.
E' notte e la principessa ordina che nessuno dorma a Pechino: il nome dello straniero deve essere scoperto ad ogni costo. Anche Calaf, sicuro di vincere, resta sveglio, sognando il momento in cui Turandot, finalmente libera dall'odio e dall'indifferenza, gli concederà le sue labbra. Turandot ordina a Timur e alla schiava Liù di parlare: quest'ultima afferma di essere la sola a conoscere il nome del pretendente e per questo viene torturata; determinata però a tacere, all'improvviso strappa un pugnale ad una guardia e si trafigge a morte, cadendo ai piedi di uno sconvolto Calaf. Anche Turandot è turbata dalla forza di Liù, ma non rinuncia alla propria intransigenza. A un certo punto, però, la principessa resta sola con Calaf: dapprima, egli la accusa di essere una donna gelida e mossa dall'odio, ma ben presto si sente sopraffare dall'amore che prova per lei. Turandot, a sua volta, è costretta ad ammettere di provare ormai un desiderio travolgente nei confronti del principe, e il sentimento tra i due sfocia in un bacio appassionato. Tuttavia, Turandot supplica Calaf di non volerla umiliare: il principe, dunque, le rivela il suo nome mettendo così la propria vita nelle mani dell'amata.
Il giorno dopo, davanti al palazzo reale è riunita una grande folla. Turandot dichiara pubblicamente di conoscere il nome dello straniero: «Il suo nome è Amore». La cortina di ghiaccio che teneva prigioniera la principessa può finalmente sciogliersi. Tra le grida di giubilo della folla la giovane donna, ora rinata, si abbandona tra le braccia di Calaf.